C’era una volta un motore con un soprannome molto particolare.
Era un motore segreto, destinato a correre la 500 miglia di Indianapolis.
Un motore talmente potente da avere il futuro segnato. Avrebbe corso una volta, una sola. Poi, sicuramente, lo avrebbero reso illegale. Che vincesse o no, contava zero. Era troppo potente.
State per ascoltare la sua storia. La storia di un motore chiamato…
La Bestia.
CAPITOLO I – CHE IDEA, MA QUALE IDEA
La storia della Bestia, o per gli amanti della precisione del motore Ilmor 265E poi rinominato Mercedes 500I, nasce a tavola, in un resort di lusso dell’Arizona nel giugno 1993.
Ci sono tre uomini di corse, tre uomini molto ricchi e molto di successo, seduti a un tavolo. Uno di questi ordina un serpente a sonagli grigliato. Grilled Rattlesnake: una specialità dell’Arizona, a quanto pare. Una storia che inizia così deve per forza essere incredibile.
I nomi dei tre personaggi sono questi: Paul Morgan, Mario Illien – il cultore di rettili piastrati – e Roger Penske.
I primi due, Morgan e Illien, sono i fondatori della Ilmor, un’azienda inglese che progetta e costruisce motori da corsa. Si erano conosciuti alla Cosworth, dove lavoravano sul motore DFX destinato alla Indycar. Avevano deciso di mettersi in proprio, sfruttando la perfetta alchimia tra i loro ruoli. Illien, un ingegnere meccanico svizzero, avrebbe progettato i motori, mentre Paul Morgan, anche lui ingegnere, avrebbe gestito l’intera fase di produzione, assemblaggio e test dei componenti.
Insomma, la Ilmor era un concentrato di idee, talento e abilità. Peccato che mancassero i soldi, e qui entra in gioco il terzo uomo seduto al tavolo.
Roger Penske, negli anni ’90, era già una sorta di semidio delle corse. Il suo team Penske, dopo una breve avventura in F1, era diventato IL TEAM della Indycar. Con la T e tutte le lettere maiuscole. Non solo: Penske aveva costruito un vero impero commerciale, basato sulla vendita di automobili, l’affitto di camion e la produzione di motori diesel.
Insomma, è un malato di corse miliardario ed è il perfetto terzo socio della Ilmor. Penske ha un sacco di soldi, è un fenomeno nella gestione di un team e ha una marea di conoscenze. Non è un caso che il primo motore della Ilmor sia destinato proprio alla Indycar, e venga marchiato dalla Chevrolet.
Il progetto, sigla 265A, fa il suo esordio nel 1986 ed è subito competitivo. Il suo successo attira clienti, la Ilmor ottiene sempre più fondi ed espande anche alla F1.
Noi però rimaniamo in Arizona, in quella calda serata di giugno. La Indycar è il core business della Ilmor e Roger Penske non è tipo da accontentarsi.
Una delle sue macchine, spinta da un motore Chevrolet Ilmor e con al volante Emerson Fittipaldi, ha vinto da nemmeno un mese la 500 miglia di Indianapolis 1993. Eppure, Penske chiede ad ogni singolo collaboratore di cercare una cosa. Una sola, tutti i giorni, continuamente.
The unfair advantage.
Quella trovata geniale, quel dettaglio al limite del regolamento che stordisce gli avversari e assicura la vittoria.
Su quel tavolo, assieme al serpente a sonagli grigliato, Illien e Morgan piazzano proprio quello.
Sbam, hanno trovato il modo di stravincere la 500 miglia di Indianapolis. Devono solo convincere Penske a finanziare il progetto.
CAPITOLO II – MAKE AMERICA POWERFUL AGAIN
Prima di continuare, voglio citarvi la fonte principale di questo racconto. È il libro Beast di Jade Gurss. Ha una decina d’anni ormai ma, per chi di voi gradisce leggere libri in inglese e gradisce i libri sulle corse, beh, fidatevi, sarà tra i migliori – se non il migliore – che abbiate mai letto.
Illien e Morgan hanno compreso in un battibaleno che l’unfair advantage gli è stato regalato qualche settimana prima dall’USAC, che all’epoca era per la Indycar quello che oggi è la FIA per la F1. Le Federazione che scrive le regole.
All’inizio degli anni ’90, dopo una serie di battaglie politiche, il mondo delle corse a ruote scoperte USA era diviso a metà. Da un lato la CART, l’associazione dei team. Dall’altro la USAC e Tony George, il proprietario di Indianapolis.
Tony George, e quindi la USAC, voleva che al centro del mondo ci fossero gli americani. Piloti americani, macchine americane e, naturalmente, motori americani. Per Tony, il vero spirito delle corse USA erano le gare su ovale, piene di team creati dal nulla e animati solo dalla passione.
Un intento nobile, direte voi. Forse un po’ utopistico, per una serie che iniziava a generare una marea di soldi dagli sponsor.
Fatto sta che per cercare di aiutare le piccole squadre, la USAC aveva creato un regolamento motori un po’ particolare.
Proviamo a raccontarlo nella maniera più semplice possibile. Vuoi costruire un motore da zero, progettarlo con le tecnologie migliori e avere il supporto di una grande casa? Allora avrai un sacco di limitazioni progettuali.
Vuoi prendere un motore di serie, in gergo americano stock block, modificarlo un po’ nel garage della nonna e correre a Indianapolis? Ti spianiamo la strada. Avrai molte meno limitazioni e, soprattutto, il tuo turbo avrà un limite di boost molto, molto maggiore. Il che significa molta, molta più potenza.
Aveva funzionato? Manco per niente.
I motori stock block non avevano mai sfondato. Per due motivi. Il primo è che, surprise surprise, un motore di serie non è pensato per le corse. Il suo scheletro è pesante, regge carichi limitati, non è pensato per infilarlo in un proiettile che corre a 400 km/h a Indy.
E poi, i motori stock block dovevano essere motori pushrod. Ossia, ad aste e bilancieri.
In un motore normale, le valvole vengono aperte dalla camma dell’albero a camme. Questa camma colpisce un cappuccio posizionato sopra alla valvola e la spinge verso il basso. Non è però l’unico modo di muovere la valvola: si può avere un sistema ad aste e bilancieri. La camma si collega alla valvola tramite delle vere e proprie aste, che spingono la valvola come se fossero delle dita.
È un sistema molto più complesso a vedersi, con qualche pro ma una marea di contro. (Potete ammirare l’animazione del nostro Samuele su come funziona un motore PushRod nel video!)
Più pezzi ci sono, più è facile che qualcosa si rompa e più è difficile controllare l’assieme. È una legge fondamentale dell’ingegneria e vale anche e soprattutto per i motori da corsa.
Ecco perché i motori stock block ad aste e bilancieri non avevano mai sfondato a Indy.
Così, dopo la 500 miglia del 1993, la USAC aveva provato ad aiutare ancora di più i motori old style. Il regolamento per l’edizione 1994 avrebbe permesso l’utilizzo di motori pushrod, quindi ad aste e bilancieri, anche se costruiti da zero. Non serviva più che derivassero dalla serie.
E, attenzione, il boost del turbo sarebbe rimasto lo stesso. Molto più dei motori normali, come quello prodotto dalla Ilmor per la Chevrolet.
Questo cambio di regolamento era l’unfair advantage che cercavano Illien e Morgan.
Quella sera, in Arizona, convinsero Penske a finanziare il progetto di un motore pushrod made in Ilmor. Era una scommessa folle, assurda.
Progettare un motore più complicato del solito, partendo da zero, in poco più di 10 mesi, il tempo che mancava alla 500 miglia del 1994.
Una pazzia totale. Una pazzia giustificata dai calcoli, però.
Con il boost concesso dalla USAC, un motore del genere poteva raggiungere 930cv. 150cv in più del V8 Ilmor Chevrolet, e dei motori Cosworth e Honda degli avversari.
Con 150cv in più delle altre macchine, nulla avrebbe fermato i piloti Penske.
E infatti Roger Penske diede il via libera. Lui si sarebbe occupato dei soldi. Illien e Morgan avrebbero progettato il motore.
CAPITOLO III – HERE COMES THE MONEY
Partiamo da Penske, dal suo compito: doveva trovare i soldi per coprire i costi del nuovo motore Ilmor, identificato con la sigla 265E.
È un progetto molto rischioso e Penske, nei primi mesi, deve garantire da solo i fondi extra. La Chevrolet, infatti, fino a quel momento partner della Ilmor, ha deciso di chiudere i rubinetti. E non è facile cercare l’investitore giusto.
Il motore 265E ha un potenziale immenso. Talmente grande che il suo progetto viene gestito nel segreto più totale. Pochissime persone sanno della sua esistenza. Torneremo su questo dettaglio ma anche per Roger Penske era un problema, tutta questa segretezza.
Non poteva pubblicizzare il motore a destra e a manca. Il rischio era che la USAC, una volta annusata la volontà della Ilmor, tornasse indietro sui suoi passi. Loro volevano che anche una squadra sgangherata potesse costruirsi il motore in casa, mica che i vincitori della 500 miglia 1993 potessero concepire un motore ancora più potente. E, aspetto ancor più importante, la USAC poteva ridurre il boost dei motori pushrod fino al giorno prima della 500 miglia. Il giorno prima, non un mese prima!
Per questo era così importante, per Penske e soci, che il progetto rimanesse segreto il più a lungo possibile.
Mentre Illien e Morgan progettavano il motore e la squadra test lo provava in pista, Roger Penske individuò il brand giusto. Mercedes-Benz. In quegli anni, la Mercedes faticava negli Stati Uniti: era percepita come un brand noioso, capace di costruire solo macchine da nonni.
Alcuni manager molto abili, tra i quali spiccava Dieter Zetsche, si stavano occupando del rilancio del marchio. Capirono subito che marchiare un motore vincente per la Indy500 sarebbe stata una mossa di marketing geniale.
E, sentite un po’, l’accordo con Penske si basò su una stretta di mano. Nulla di più. E una condizione molto particolare: le tre monoposto del Team Penske avrebbero tutte dovuto utilizzare il motore pushrod. Niente motori vecchi di backup.
Sulla Bestia, questo il soprannome del motore Mercedes 500I, dovevano scommetterci tutti. Nessuno escluso.
CAPITOLO IV – FURIA CAVALLO DEL WEST
Dall’altra parte dell’Oceano, a Brixworth, aveva sede la Ilmor Engineering. Oggi lì vengono costruite le Power Unit di F1 Mercedes – eh già, alla fine Mercedes si comprò l’intera Ilmor -. Subito dopo la cena in Arizona, invece, iniziò un piano unico nel suo genere.
Mario Illien e Paul Morgan dovevano progettare un motore nuovo di pacca e dovevano farlo in segreto. Il tutto in 10 mesi, test compresi. Un’impresa impossibile.
Il problema più grande di tutti era la segretezza. Nessuno poteva sapere del motore 265E. Così Illien e Morgan decisero di selezionare alcuni ingegneri fidati tra quelli che lavoravano al progetto Indycar e… li fecero lavorare in segreto. Chiusi negli uffici, spesso di notte.
Eh già. Durante il giorno la Ilmor funzionava come al solito. C’era chi si occupava dei motori di F1, e chi si occupava dei motori di Indycar. Nel 1994 la Ilmor avrebbe prodotto un’evoluzione del motore V8 Chevrolet che la Penske e tanti altri clienti avevano utilizzato nel 1993. Sigla di progetto 265D. Era quel motore di backup che la Mercedes vietò di utilizzare al Team Penske.
Pensate che nell’inverno quel motore guadagnò 50 cv di sviluppo, arrivando a 820 cv di potenza massima. Alla Ilmor non si risparmiavano, ma proprio per nulla.
Di giorno lavoravano allo sviluppo del motore 265D, destinato ai clienti e al Team Penske per tutta la stagione tranne Indianapolis.
Di notte, progettavano un motore completamente nuovo, il 265E marchiato Mercedes, detto la Bestia. Un motore destinato solo a Indianapolis e solo alle tre monoposto del Team Penske.
Capite la follia?
All’inizio i risultati non furono buoni. Per nulla. Nonostante il boost maggiore rispetto al motore convenzionale, il 265D, il motore pushrod 256E aveva solo una trentina di cavalli di più.
Illien aveva promesso a Penske 930 cv, su quel tavolo in Arizona. Dopo le prime settimane al banco prova, il motore non andava oltre gli 850 cv. Qualunque cambiamento pensasse Illien non aveva effetto.
Finché un giorno, mentre Illien era in vacanza, un ingegnere della Ilmor provò un profilo diverso delle camme, molto meno spinto, meno racing. Era una modifica rispetto alla quale Illien era completamente contrario, per questo l’ingegnere aspettò che andasse in ferie.
Quando i tecnici Ilmor azionarono il banco prova, rimasero basiti.
Una modifica, una singola modifica neanche troppo grossa aveva svegliato la Bestia. 970 cv. Tra una prova e l’altra il motore aveva guadagnato 120 cv. In un giorno solo. 40 cv in più di quanto Illien avesse promesso. 150 cv in più della concorrenza o del motore Ilmor 265D.
Quel motore era davvero la Bestia.
CAPITOLO V – A GOMME FREDDE IN MEZZO ALLA NEVE
Una volta trovati i cavalli, il motore doveva essere reso affidabile.
Non serve a nulla un motore potente che si rompe. La Bestia avrebbe dovuto sopportare 500 miglia intere. Non una di meno.
Servono chilometri e chilometri di test, in pista e al banco, perché un motore da corsa sia pronto. Idealmente ti prenderesti almeno un anno. Ecco, con la Bestia questo anno non c’era. Neanche per sogno. Giusto per darvi un’idea dei tempi a disposizione, solo per produrre l’albero a gomiti di quel motore ci volevano 23 settimane. Quasi sei mesi.
Nei dieci mesi a disposizione, la Ilmor e il Team Penske avrebbero dovuto progettare il motore, costruirlo, istruire i meccanici ad assemblarlo, testarlo al banco prova, modificare la monoposto PC23 perché lo potesse ospitare, modificare il cambio per gestire la coppia molto più elevata, testare la macchina in macchina in pista e risolvere qualunque problema emergesse.
E tutte queste cose dovevano rimanere segrete.
Raggiunti i 970 cv, il progetto del motore fu chiuso. Tutte le modifiche ulteriori avrebbero riguardato solo e soltanto l’affidabilità.
Nell’inverno 1993 tre meccanici motoristi del Team Penske, i migliori assemblatori disponibili, furono mandati a lavorare in gran segreto in un capannone che faceva da deposito di gomme vicino alla sede del team, in Pennsylvania. Lo trasformarono in una sala montaggio ribattezzata ironicamente Taj Mahal.
Lavorarono per mesi nel segreto più assoluto: ricevevano i pezzi dall’Inghilterra e smontavano e rimontavano il motore, così da imparare a farlo più velocemente e bene possibile. Di sera, quando il resto del team abbandonava la sala prove dei motori, situata nella sede della Penske, loro caricavano i motori 256E su un camioncino, entravano in sala prove, testavano il motore fino a notte fonda e all’alba sbaraccavano e pulivano tutto, così da scomparire prima che arrivassero i colleghi al mattino.
Volete sentire un’altra follia? Ogni volta che un motore si rompeva, veniva fatto un report sul guasto. Il report veniva spedito in Inghilterra, alla sede Ilmor, e si progettava una modifica risolutiva. Veniva prodotto il pezzo modificato e per farlo arrivare presto negli Stati Uniti sapete dove lo caricavano? Nella stiva del Concorde, l’aereo supersonico che faceva Londra-New York in poco più di 3 ore.
Tutti i giorni così, per qualche mese. E se il pezzo era in ritardo per essere caricato sul Concorde, Paul Morgan lo caricava su uno degli aerei della Seconda Guerra Mondiale che collezionava – e pilotava – e lui stesso lo trasportava fino a un piccolo aeroporto vicino ad Heathrow, qualunque fosse la condizione meteo!
E non è neanche la follia più assurda di questo periodo di test. Oh no, per nulla.
Il 20 febbraio 1994 il motore Ilmor 265E, soprannominato la Bestia, era pronto per il primo test su una monoposto del Team Penske. Luogo: ovale di Nazareth, Pennsylvania. Condizioni del cielo: serene. Condizioni dell’asfalto: coperto dalla neve. Pur di girare, il team Penske ordinò al personale della pista di spazzare via la neve e creare due muri di neve, alti 3 metri, ai lati dell’asfalto. Le pareti furono ricoperte d’acqua, che ghiacciò, perché in caso di incidente la monoposto non si infilasse nel muro… sempre di neve!
I primi test vennero percorsi in queste condizioni. Non so se vi rendete conto dell’assurda magia di questo progetto. Tutto, purché rimanesse segreto.
Dal 20 febbraio al 29 maggio, la data della 500 miglia, c’erano tre mesi. Il tempo in realtà era di meno, dato che nel 1994 tra prove libere e qualifiche, la 500 miglia prendeva quasi l’intero mese di maggio.
A metà aprile, quando l’esistenza del motore venne annunciata al mondo intero in grande stile, la Bestia non aveva ancora raggiunto 500 miglia di durata. Si spaccava sempre prima.
I test in mezzo alla neve erano stati una specie di disastro. L’aria gelida faceva contrarre il metallo del motore talmente tanto che saltavano le tolleranze e un componente dopo l’altro si spaccava.
Una volta che la temperatura salì con la primavera, tac, magia, il motore iniziò a spaccarsi molto meno.
Un altro componente fece impazzire i tecnici della Ilmor e i motoristi di casa Penske. La centralina. Dovettero cambiare il fornitore all’ultimo per renderla affidabile e, udite udite, le nuove centraline arrivarono talmente tardi che il motore 265E, la Bestia, partecipò alla 500 miglia di Indianapolis… con la mappa motore fatta a metà!
Non sto scherzando. Dato che a Indianapolis si gira quasi sempre a gas spalancato, e non si tocca mai il freno se non quando si entra ai box, l’importante è avere una mappa motore che funziona bene in situazioni di full gas. Non è fondamentale mappare perfettamente le situazioni di gas parziale o di scalata.
La mappa motore, per chi tra voi conosce meno i termini tecnici, è l’insieme di regolazioni caricate sulla centralina. La centralina, grazie alla mappa, sa sempre come gestire i parametri del motore al variare del regime di rotazione e al variare della richiesta di coppia del pilota.
Visto il poco tempo a disposizione, gli ingegneri mapparono nel dettaglio solo il comportamento full gas. E il resto delle situazioni? La mappa era molto basilare e del tutto incompleta.
Tenete bene a mente questo dettaglio perché è molto importante per la parte finale della nostra storia.
Eh già, manca la 500 miglia di Indianapolis.
La Bestia completò il primo test di oltre 500 miglia a maggio inoltrato, sull’ovale del Michigan, con la squadra test che girava mentre il resto del team era già a Indianapolis, dove erano iniziate le prove ufficiali. Avete capito bene. Il primo test dell’intera gara riuscito è stato quando il resto del team, a Indianapolis, stava già facendo le prove ufficiali della gara.
Ora era tempo di correre. La Bestia doveva dimostrare il suo valore.
CAPITOLO VI – MALEDETTA BANDIERA GIALLA
Quando gli avversari iniziarono a capire quanto davvero fosse forte la Bestia, beh, era troppo tardi.
Ogni volta che le Penske dotate del motore Mercedes 500I scendevano in pista, Roger Penske si premurava di ricordare ai piloti una specie di mantra: non spingete. Non mostrate il nostro valore. Rischiamo che la USAC abbassi il boost in ogni momento.
Fino al giorno prima della gara, la federazione poteva ancora abbassare i boost. I tre piloti della squadra – Al Unser Jr, Emerson Fittipaldi e Paul Tracy – ascoltavano Penske. Ci mancherebbe. Rallentavano nelle curve e acceleravano in rettilineo. I tempi sul giro erano in linea con gli avversari ma le velocità di punta… quelle no. Quelle erano mostruose, ben oltre i 400 km/h.
La Bestia ruggiva. E ruggiva talmente bene che le ruote posteriori iniziarono a soffrire. I piloti sentivano partire il posteriore in 4° marcia, nonostante l’enorme carico aerodinamico sviluppato oltre i 300 km/h. E la coppia del motore era talmente forte da scollare gli pneumatici dal cerchione, sbilanciandoli.
Ripeto: pattinavano in 4° a 300 km/h. E le gomme slittavano via dal cerchio.
Qualcosa di mai visto.
Ma il Team Penske era un team eccezionale. E ora delle qualifiche aveva risolto quasi tutti i problemi. Anni dopo, un ingegnere della Ilmor ha raccontato che la Bestia, nella 500 miglia 1994, mostrò solo il 70% del suo potenziale. Soprattutto in qualifica.
Il 70% fu sufficiente ad avere Al Unser Jr in Pole Position, Fittipaldi 3° e Paul Tracy oltre la ventesima posizione per colpa di un incidente nelle ultime libere.
Il potenziale di vincere c’era. Stava funzionando tutto come da programma.
Il 29 maggio 1994, giorno della corsa, le monoposto Penske-Mercedes non avevano avversari. Paul Tracy si ritirò molto presto, mentre cercava di rimontare dal fondo del gruppo. Turbocompressore rotto. Un guasto anomalo, mai sperimentato, ma pur sempre comprensibile: la Bestia aveva condotto molti meno test di quanti sarebbero serviti davvero.
Fittipaldi e Unser, invece, dominarono la corsa. Emmo, il brasiliano due volte campione del mondo di F1, era in stato di grazia. Imprendibile. Non modificò una volta che fosse una l’assetto della sua Penske. Al Unser Jr, invece, controllò gli avversari senza grandi problemi, gestendo al meglio la vettura e il carburante.
A venti giri dalla fine Fittipaldi era 1°. Spingeva come un matto. Ma avrebbe dovuto fare un ultimo pit stop fuori programma nei giri finali, per colpa di un sacchetto di plastica finito nel radiatore che l’aveva costretto a fermarsi.
Al Unser Jr, invece, era 2° e la sua corsa si era trasformata in una scommessa. Dopo l’ultimo pit-stop aveva abbastanza metanolo per concludere la corsa, ma a una sola condizione: aveva bisogno di una bandiera gialla negli ultimi giri. Una sola, così da risparmiare qualche litro di carburante.
Al giro 182 su 200 Fittipaldi provò a doppiare Al Unser Jr. Mettendo un giro tra sé stesso e il compagno di squadra, Emmo avrebbe avuto il tempo di fare il rabbocco e tornare in pista primo. Fittipaldi superò Unser ma Al, al rettilineo successivo, sfruttò un doppiato per sdoppiarsi di nuovo.
Due giri dopo Fittipaldi provò di nuovo il sorpasso ma in curva 4 chiuse troppo la traiettoria, perse il controllo e… sbam. Fittipaldi a muro.
Le 3 Penske potevano dominare la 500 miglia e ora, a 15 giri dalla fine, ne era rimasta una sola.
Certo, Al Unser Jr era 1°. E l’incidente di Fittipaldi gli aveva regalato proprio quella bandiera gialla di cui aveva bisogno. Pace Car in pista, carburante risparmiato.
Non era finita. Per nulla. Gli ingegneri della Ilmor e i meccanici Penske cominciarono a sudare freddo. Vi ricordate la storia della centralina nuova e del motore Bestia che correva con una mappatura incompleta? Ecco, dietro alla Pace Car Al Unser doveva girare piano. Non poteva spingere al massimo. Doveva chiedere pochissimi cavalli al motore. Quella situazione non era stata mappata nei dettagli.
E se avesse consumato più del previsto? Se il motore si fosse rotto per qualche strano motivo?
La corsa ripartì abbastanza presto ma di nuovo, al giro 196, un’altra caution riportò in pista la Pace Car. Altri quattro giri di sofferenza assoluta.
Bastava un problema piccolissimo, una stupidata, una foratura, e il più folle e segreto dei progetti sarebbe stato inutile.
Fortunatamente, la Bestia resistette anche quelle ultime miglia. Al Unser Jr e la sua Penske-Mercedes vinsero la 500 miglia di Indianapolis 1994.
CAPITOLO VII – CHE CULO GLI EROI
Durante lo smontaggio della vettura vincente, i meccanici Penske si accorsero che l’elettronica di controllo dell’alternatore si era rotta. Il voltaggio della batteria era sceso già durante gli ultimi giri. Quel motore non avrebbe resistito altre venti miglia.
Incredibile. Se la Indy 500 fosse stata Indy 520 non l’avrebbero vinta.
Molto meno incredibile fu la vita successiva della Bestia: ovviamente, la USAC ridusse il boost concesso ai motori pushrod per il 1995. Prima di poco, tanto che la Ilmor e la Mercedes continuarono lo sviluppo del motore e spesero un sacco di soldi per ordinare i nuovi pezzi. Poi, dopo qualche mese, la USAC abbassò di nuovo il limite. La Bestia non sarebbe più competitiva.
Mario Illien era talmente furioso che minacciò di scaricare tutti i bancali dei pezzi nuovi nel tunnel dell’ovale di Indianapolis, trasformandolo in una discarica.
Non lo fece, alla fine.
La Ilmor fu comprata dalla Mercedes e oggi costruisce le Power Unit di F1 che hanno vinto mondiali a ripetizione.
Roger Penske e Mario Illien hanno aperto un’altra azienda che, tra i tanti progetti, cura il motore Chevrolet per la Indycar. Penske, sempre più imprenditore di successo, ha comprato l’intera Indycar e l’ovale di Indianapolis, e la sua squadra continua a macinare vittorie.
Paul Morgan, invece, morì nel 2001 mentre pilotava uno dei suoi amati aerei della Seconda Guerra Mondiale.
Tutti e tre, insieme a una marea di ingegneri, meccanici e dipendenti di Ilmor e Penske, crearono il più incredibile motore della storia delle corse.
La Bestia.
Alberto Naska e Luca Ruocco
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